Sarà che il ragazzo è in crescita

di Leon Marchi

 

In tempi di ristrettezze, in un comune montano, in provincia di Roma, qual è Jenne, gli effetti si fanno sentire più che altrove, anche se altrove (siamo negli anni che seguono la seconda guerra mondiale) non si naviga nel benessere.

     La gente si arrangia con dignità, vivendo alla giornata, che è davvero lunga per quanti devono procurarsi di che vivere: lavorando presso altri o, chi è fortunato, nella propria lingua di terra, con la quale parla e ragiona fino a quando il sole, tramontando, non ne interrompe la conversazione, rinviandola al mattino dopo.

     Gli uomini che non sono impegnati fuori s’industriano in tutt’i modi, poiché c’è bisogno di braccia e buona volontà, in casa e in paese.

     Le donne non stanno un attimo ferme, occupandosi di mille cose.

     I giovani, anch’essi partecipi e attivi, oltre a far fronte alle necessità quotidiane, non possono non prestare attenzione ai bisogni propri della loro età. Così, la vita, grazie ad essi, riprende il suo corso naturale, facendo guardare al futuro con fiducia.

     Dopo l’estate (con problemi enormi per tutti, data la mancanza di acqua e la difficoltà di approvvigionamento) e dopo l’autunno e l’inverno (con altri problemi, non meno grandi), finalmente viene la primavera, con il suo soffio di vita nascente, di vita nuova.

     Col freddo, la gente era in casa e gli uomini, la sera, si trovavano in osteria, a bere un bicchiere di vino in compagnia; quando si usciva, per qualsiasi faccenda, si scambiavano poche parole, poi ognuno se ne andava per la propria strada.

     Andando per la loro strada, sopraggiungendo da direzioni opposte, nel punto di congiunzione di due muri di una casa, la sorte ha voluto che Anna finisse… finisse nelle braccia di Ermanno, dato che il giovane ha avuto la prontezza di portarle aperte in avanti; e, poiché il sangue si stava svegliando nelle loro vene, quell’incontro, insolito e inaspettato, nel farli ridere, già li ha resi simpatici l’uno all’altra, tanto che subito, avvertendo di piacersi, si sono organizzati per incontrarsi dove nessuno possa vederli. E si vedono, con tranquillità, perché non mancano i luoghi appartati e sicuri, e non manca il modo di arrivarvi, senza dare nell’occhio.

     Già da un po’ (più di un mese) Ermanno è silenzioso, assente. La madre se ne è accorta, e ha imputato alla primavera e alla crescita (ha sedici anni) quel suo deperire.

     Le vicine di casa, adesso una e adesso un’altra, chiedono a mamma Mariuccia: «Mariù, non vedi come Ermanno è sciupato?»

     «Pure io l’ho visto un po’ sciupato,» risponde l’interpellata, concludendo: «sarà che il ragazzo è in crescita.»

     «Hai ragione: sarà che è in crescita.»

     «Allora, per prima cosa, un ovo fresco la mattina.»

     «Un ovo sbattuto, Mariù.»

     “Un ovo sbattuto,” pensa Mariuccia; “ma dove lo trovo?” Però, siccome è mamma, armata di coraggio, si mette in cerca di un uovo fresco, di due uova, già che c’è, e tutte le mattine le sbatte per Ermanno, facendogliele bere, come cura ricostituente.

     Un giorno, le vicine di casa, adesso una e adesso un’altra, adesso con una mezza parola e adesso con un’altra mezza, un po’ per volta, soffiano nell’orecchio di mamma Mariuccia la novità, di cui essa è all’oscuro, motivo ora del loro divertito punzecchiare: «Mariù, tu sbatti l’ova, ma non te lo hanno detto che Ermanno, il figlio tuo, va con Annarella… la signorinella

     Mariuccia è rimasta di stucco. “Con Annarella?”: e ride, scotendo la testa e dandosi della stupida. «Con…?» dice, andando su tutte le furie: «E io, io, che mi sono fatta in quattro, per rimediare le ova fresche, tutte le mattine!» Ripetendo: «E io, io…», completando di tanto in tanto la frase, si dirige verso casa Piconi, intenzionata a fare una scenata alla mamma di Annarella. Bussa.

     Da dentro: «Chi è?»

     Mariuccia, spingendo il portoncino e entrando: «Io,» annuncia.

     «Tu, Mariuccia! Qual buon vento…?»

     «Eh, Beatrì, come sei bella: io sto facendo tanto per le ova fresche per il figlio mio, e poi vengo a sapere che figliomo    [mio figlio]   le rimette in corpo a…»

     «… Annarella?» balbetta la donna, che le è di fronte.

     «Annarella… la signorinella! Che ve possino ammazzà… proprio a me!»

     Mamma Beatrice, stordita, fa segno a Mariuccia di sedersi; poi: «Non so niente, mi devi credere.»

      «Dove avevi gli occhi? Una mamma… una mamma deve stare attenta alla propria figlia!»

     «Sono ragazzi.»

     «Proprio perché sono ragazzi, bisogna stare attenti.»

     «Per le ova… per le ova, dimmi una cifra.»

     «Eh, Beatrì, non sono venuta qui per… Sono ragazzi, dici. Ragazzi un corno: a sedici anni, ero incinta di Ferruccio, il mio primo figlio,» sbotta Mariuccia, mettendosi a sedere.

     «Io, di Natale.»

     «Non dico che…; dico che può succedere.»

     «Dobbiamo stare attenti.»

     «Devi dire a tua figlia… A proposito, sai dov’è?» chiede Mariuccia; e, al “no” di Beatrice, scoppiando a ridere: «Le ova sbattute danno energia, e io, io d’ova glie n’ho sbattute, Beatrì… glie n’ho sbattute! Spero… spero che, con tante ova, non ne sia venuta fuori una frittata.»

     «Una… che dici?» 

     «Che dico? dico che non hanno esperienza; dico che la paglia, a contatto col fuoco…»

     «Eh, Mariù, facciamo le corna!»

     «Eh, Beatrì, tu badi a Annarella e io… io non sbatto più le ova a Ermanno,» chiude Mariuccia, dirigendosi verso il portoncino.

     Beatrice, rimasta sola, scrollando la testa più volte, si mette a sedere e… e guarda verso il portoncino, dove compare Annarella.

     La quale, mormorato un saluto, beve e si rifugia in bagno, rispondendo, da dentro, che non si sente bene.

     La madre, allarmata dalla visita di Mariuccia, corre con la mente alle peggiori conclusioni, tanto che non le reggono le gambe ed è costretta a sedersi.

     Respirando lentamente, ad occhi chiusi, recita sottovoce un’avemaria e un padrenostro; poi, rincuorata nell’anima, per recare conforto al corpo, in un bicchiere d’acqua versa tre dosi di zucchero e, giratovi dentro il cucchiaino, manda giù l’efficace rimedio. Il marito, sulla questione, non ha voce in capitolo, avendola messa incinta; ma neppure lei ne ha, consenziente al fatto, al quale hanno riparato con il matrimonio. Loro due possono comprendere la figlia e aiutarla. La preoccupano le malelingue. A quelle dovranno far fronte lei e Mariuccia. La quale non potrà tirarsi indietro, perché, se lei è colpevole di non essere stata attenta alla propria figlia, la futura consuocera lo è anche di più, avendo sbattute tutte quelle ova fresche per il figlio, facendolo andare su di giri, poveretto. «Quando si vuole, le cose si accomodano,» conclude alla fine, mettendo una pietra sopra alla questione. Ma è sicuro che Annarella…?

     Il pallore di Annarella, comparsa in quel momento, vale come risposta ai suoi occhi di madre. Nulla le chiede, dunque, attendendo che sia lei a parlarne.

     E glie ne parla la sera dopo, accanto al camino, a voce bassa, posandole la testa sulla spalla.

     Mentre ascolta, Beatrice avverte insieme gioia (per il bimbo) e preoccupazione (per la situazione delicata). Dovrà informare Mariuccia, subito. Le scarpe, in sostituzione delle pantofole, e subito fuori. Andando, le risuonano nell’orecchio le parole di Mariuccia: “Eh, Beatrì, come sei bella: io sto facendo tanto per le ova fresche per il figlio mio, e poi vengo a sapere che fìgliomo le rimette in corpo a…” Fermatasi di colpo, brandendo in aria i pugni chiusi, esclama: «E poi vengo a sapere che figliomo…» Subito si calma, mandando giù il boccone amaro. Donna pratica qual è, si concentra sulla situazione. Sorride: sa che s’intenderà con Mariuccia, che per Ermanno, buon lavoratore, non avrebbe potuto sperare di meglio: sposare una giovane di buona famiglia, con una dote… Riferirà al marito (lontano da Jenne, per lavoro, con il figlio Ferruccio, decisi a mettere su la somma mancante per acquistare il terreno del vicino) a cose risolte.

     Mariuccia, dalla finestrella della cucina, la vede arrivare e, consigliata dagli spiritelli liberi in ogni fibra del proprio corpo, corre a chiudere il portoncino: Beatrice dovrà bussare e attendere che lei, sola in casa, vada ad aprire.

     Beatrice bussa, bussa ancora e, già è sul punto di fare dietro-front, quand’ecco giungerle la voce di Mariuccia: «Arrivo! arrivo!»

     «Eh, Beatrice!» esclama Mariuccia, facendo capolino dall’uscio socchiuso.     «Qual buon vento…?» conclude, spalancandolo.

     «Le ova fresche che hai fatte bere a tuo figlio Ermanno,» risponde, con un sorrisetto, Beatrice, facendosi largo e entrando.

     «Che c’entrano le ova…?»

     «C’entrano, insieme a qualcos’altro!»

     «Se non ti spieghi…»

     «Ci mettiamo sedute e ti spiego.»

     Sedute una di fronte all’altra, guardandosi negli occhi, non ci impiegano molto per capirsi fino in fondo.

     Che si sono dette? Esattamente quanto già si erano prefisse di dire, l’una e l’altra recitando la parte loro assegnata dalla situazione delicata. Con quale risultato? Soddisfacente per entrambi.

     Senza dubbio è migliore il suo, secondo Mariuccia, perché, grazie alle ova sbattute fatte bere a Ermanno, grazie a quelle, gli ha procurata una moglie niente male, con l’aggiunta di una dote insperata.

     È migliore il suo senza dubbio, secondo Beatrice, perché, considerato che i ragazzi si vogliono bene (che non è poco per due giovani sposi), Ermanno lavorerà per i Caponi, i cui possedimenti, estendendosi con l’acquisto del terreno del vicino, avranno bisogno di braccia forti e fidate, non facilmente reperibili. 

     La gente? La gente si è prodigata nel bisbigliare la propria pettegola opinione sulla situazione, fino al giorno del matrimonio, perché, una volta che questo è stato celebrato, si sono sentiti in diritto di esprimere la propria impressione sulla cerimonia, alla quale, seppure curata in ogni particolare, hanno trovato difetti.

     Felici gli sposi, contenta la famiglia di Annarella; contenta anche la famiglia di Ermanno, ma un po’ meno (e ancora meno, col passare del tempo) Mariuccia, trattata con fredda cordialità dalla consuocera, che ancora non riusciva a cancellare dalla memoria quell’offensiva irruzione in casa sua.

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