Corna di capra

A quei tempi le bestie venivano uccise nell’ammazzatora, locale non intonacato, in cui subito balzavano agli occhi i ganci pendenti dal soffitto e le cannelle dell’acqua, i budelli. Guardando attorno, oltre a due tavolacci di quercia, completavano la macabra scenografia una rastrelliera, con coltelli di varie misure, e, sparsi sulla terra nuda, alcuni recipienti. Dopo l’uccisione, cani e gatti si lanciavano, per appropriarsi di qualche capoccia o delle budella, dette mazze; i topi comparivano e scomparivano in un batter di ciglia, portando via quel che a loro capitava a tiro.

Non abitavano lontano dall’ammazzatora Luca Caponi, appuntato dei carabinieri in pensione, e Aldo Desiderato, muratore, padre di quattro figli, dei quali il maschio, Enzo, di undici anni, era capo riconosciuto di un gruppetto di ragazzi più piccoli.

Per andare alla casa vecchia, dovevano scegliere: allungare o prendere la strada più corta. Enzo, Peppino e Cherubino, proprio perché pericolosa, optavano per la scorciatoia che li portava alla scalinata terminante davanti al portone di Caponi, dove, indirizzate a tutta voce irriverenti corna all’ignaro proprietario, di corsa, ridendo, percorrevano i pochi metri che li separavano dal loro rifugio.

Il beffeggiato usciva in tempo in tempo per acciuffare con lo sguardo l’ultimo delinquentello, nel momento che entrava nel covo. Là si riunivano, e lui, frenato dalla moglie, ogni volta ingoiava amaro, e perdonava, perché erano bambini. Se fosse stato libero di decidere, sarebbe andato dritto da Malizia, il temutissimo appuntato dei carabinieri, con il quale nessuno provava a fare il furbo: quello, essendo proibito giocare a carte e disturbare, li avrebbe presi per gli orecchi a uno a uno, e, non potendoli incarcerare, in quanto minorenni, a calcioni li avrebbe consegnati ai genitori, per un’altra dose di pedate nel sedere. Un paio di corna rintorcinate di capra, inaspettatamente, vennero in suo aiuto.

Data la vicinanza con l’ammazzatora, non era difficile imbattersi in corna di montone e capra. E un giorno il caso volle che, mentre i delinquentelli scendevano in punta di piedi la scalinata facendo gli scemi più del solito, Peppino inciampò in un paio di corna rintorcinate di capra. Non ci pensò due volte: le prese e le infilò nel battocchio della porta di casa dell’appuntato dei carabinieri in pensione.

Il quale, stando vicino alla porta, subito uscì, e le corna gli caddero sulle scarpe: offeso e indignato, essendo la sua casa onorata, andò su tutte le furie e, dirigendosi verso la casa vecchia, desideroso di afferrarne uno, e di tirargli gli orecchi, fino a farlo strillare, gridò alla moglie: «Piglia la pistola!».

Enzo, sentendo nominare la pistola, salì di sopra con la scala a zippi,a pioli. Gli andò dietro Peppino, svelto come uno scoiattolo, mentre Cherubino, rimasto giù (perché Enzo, per paura di Luca Caponi, aveva tirata su la scala), si era appiattito dietro la porta, con l’intenzione di percepire l’arrivo dell’appuntato dei carabinieri in pensione. Il quale, per disgrazia dell’incauto ragazzo, abbassò la maniglia di alluminio, e aprì la porta con violenza, provocandogli un bernoccolo sulla fronte; ma, per fortuna del poveretto, non vi guardò dietro, limitandosi a lanciare un’occhiata all’interno e mormorando tra sé: «Dov’è andato?», non vedendovi anima viva: se avesse guardato con attenzione, vi avrebbe trovata, piegata in due, un’anima mezzo tramortita dalla botta ricevuta.

Sopra, Enzo, belva in gabbia, andava su e giù a piccoli passi, badando a non fare rumore sul pavimento di tavole.

Peppino a stento tratteneva il riso, pur tenendo gli orecchi tesi. «Se n’è andato,» concluse, dopo un po’.

Enzo, tenendo anche lui gli orecchi tesi, guardando fuori dalla finestra senza vetri, disse: «Vengono… Gli faccio segno di andare via».

«Hanno allungato, affari loro: Caponi gli corre dietro, e così noi ce la filiamo. Morte loro, vita nostra!».

Albino, Ivo e Siro, giunti davanti alla casa vecchia, vedendo la porta aperta sotto, constatato che tutto era calmo e tranquillo attorno, vi entrarono, e trovarono Cherubino, pallido, con la mano sulla fronte. Informati sull’accaduto, giù a sfotterlo, e a ridergli in faccia, senza pietà.

Sopra, ognuno con i propri orecchi, senza guardarsi, cercavano di captare e codificare tutti i rumori che arrivavano.

Il commento di Enzo, condensato in quel battere l’indice sulla fronte, tradotto in parole, voleva significare: erano proprio scemi, quelli là sotto, a ridere e scherzare, col generale (così avevano soprannominato l’appuntato dei carabinieri in pensione) armato di pistola! Ma, oltre a quelle risate idiote, non captando altro, rincuorato, si sporse e, gettato lo sguardo verso l’abitazione del sunnominato, tornato dentro buono buono, li chiamò con un fischio, e imposto loro il silenzio con un “ssst!”, calò la scala, e attese che salissero, prima di ritirarla su.

«E quello?» domandò Enzo ad Albino.

Albino, più piccolo di lui di un mese, rispose, senza timore: «C’è venuto da solo».

«Insieme a voi!».

«Se ti becca tuo padre…» disse Peppino, rivolto a Ivo, di cinque anni.

«Non mi becca: è fuori per lavoro».

«Se ti becca…» lo punzecchiò Peppino, ridendo, al pensiero di quanto avvenuto il giovedì della settimana prima. Il ragazzino, figlio di Armando Fumi, impiegato comunale, persona pacifica, che non si arrabbiava mai, voleva entrare per forza. Alla fine, dopo tanto insistere, Enzo gli disse: «Vabbè, te faccio entra’; però, tu devi sta’ dietro la porta e, quando busseno, tu, prima d’apri’, devi chiede il nome».

L’unico che venne a bussare verso mezzanotte, fu proprio il padre. Al quale Ivo chiese: «Il nome… Chi sei?… Il nome».

Dall’altra parte il padre, che lo aveva cercato tanto: «Mo ti gl’ho dongo io o nome!», che, tradotto, significa: «Adesso te lo do io il nome!». Le quali parole, dato il tono con cui erano state dette, sottintendevano queste altre: «Apri, e subito!».

E infatti Ivo gli aprì; ma non subito, poiché Enzo gli fece cenno di aspettare: il tempo di raccogliere le carte e di infilarsele nella tasca di dietro.

«A casa!» disse Armando Fumi, prendendo il figlio per mano.

“Baciato dalla fortuna,” pensò Enzo: “al posto suo, dal padre, come minimo, ci avrebbe rimediato un bel paio di calci sul culo”.

Si poteva iniziare a giocare: a tressette; poi, se non finivano tardi, ci sarebbe scappata pure una briscola. E iniziarono, ignari di ciò che il generale aveva architettato, per ripagarsi dei bocconi amari mandati giù a causa loro.

Anziché scendere giù, dove c’erano tavolo e sgabelli, restarono su (perché lì si sentivano al sicuro), giocando a gambe incrociate, con le natiche sulle tavole. E, mancando all’appello Gigi, poiché si giocava a coppia che perde esce, fu ingaggiato Ivo, affibbiato a Cherubino; il quale masticò male, ma si ricredette presto, perché, grazie a lui, vinse tutte le partite, mandando fuori le coppie Enzo-Peppino e Albino-Siro, costrette alla fine a cacciare ognuna due sigarette.

I vincitori, con fierezza, ne accesero una a testa; ma la sorte aveva deciso che Ivo non avrebbe iniziato quella sera a fumare. Un rumore. Tutti e sei, con gli orecchi tesi, all’erta.

Enzo, umettati il pollice e l’indice, spense la candela, ordinando, con un “ssst!”, di non fiatare; poi, leggero come una piuma, si mosse verso la finestra senza vetri, alle spalle della casa vecchia, da dove era venuto il rumore: nessuno. Il rumore adesso veniva dalla parte davanti: anche lì, nessuno. Era il generale, venuto a controllare se ancora erano lì? Sì, era lui. Dovevano filare, al più presto: tutti insieme, prendendo la via più lunga, perché era da scemi passare davanti a casa sua, dove di certo stava ad aspettarli.

A un cenno del capo, Peppino calò la scala a zippi davanti alla casa vecchia, nel punto solito, pianeggiante e largo una cinquantina di centimetri, davanti al portone d’ingresso.

Primo a scendere fu Enzo e, a seguire, Ivo e Peppino, mentre gli altri, vista… vista la sorte capitata ai compagni, restarono su, anche se non impiegarono molto a capire che a quella neanche loro sarebbero potuti sfuggire.

«Giù!» ingiunse il temuto appuntato dei carabinieri Malizia.

«Giù!» rincarò Luca Caponi, che era andato a chiamarlo.

«Giù!» dissero il padre di Siro e la madre di Albino; i quali, in silenzio, immobili, anziché correre in soccorso dei figli, guardavano su, attendendo che il castigo colpisse anche gli altri tre, prossimi ad arrendersi. Cherubino, infatti, già aveva posato un piede sullo zippo più alto e l’altro su quello seguente; e in tale posizione indugiò una manciata di secondi, prima di… di andare a scivolare sul liquame versato alla base della scala. Mogi mogi si calarono giù anche Siro e Albino.

Conciati com’erano, dalla testa ai piedi, pieni di vergogna e con il morale a pezzi, Cherubino avanti e, a seguire, Albino, Siro, Peppino, Ivo e Enzo, furono costretti a prendere la scorciatoia e a sfilare davanti a Luca Caponi e alla moglie, uscita fuori, e rientrata poi in casa da sola, perché il marito ancora un po’ volle accompagnare i colpevoli, prima di salutare Malizia e gli altri, lasciando nel temuto appuntato dei carabinieri un interrogativo: chi era stato a buttare quel liquame? A buttarlo, anche se tenne la scoperta per sé facendo credere a tutti di avere architettata lui quella punizione, non poteva essere altri che il suo ex collega, spinto all’esasperazione da quei “delinquentelli”.

I quali non si fecero più vedere nella casa vecchia, venduta, ironia della sorte, a Luca Piconi da Aldo Desiderato, che aveva bisogno di soldi, per sopraelevare la casa in cui, lui e il figlio Enzo e il resto della famiglia, ancora in crescita, stavano stretti. 

Il giorno che il generale ne entrò in possesso si fece cucinare dalla moglie fagioliin umido con cotiche di maiale, dei quali andava matto; e ne mangiò in abbondanza, prima di appartarsi nella casa vecchia e smaltire la pesantezza di stomaco giù, dove i “delinquentelli” erano soliti giocare a carte e ridere e scherzare, facendogli rodere il fegato.

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